La prima differenza evidente nel mondo universitario, tra i paesi anglosassoni e l’Italia, sta nel fatto che lì “professore” è un titolo accademico legato soprattutto alla ricerca, mentre nel Belpaese da sempre è legato alla didattica. Difatti, in Italia il professore firma un registro per ogni ora di lezione (ed è tenuto a tenere solo 120 ore di lezioni frontali ad anno), mentre non ha avuto sino ad oggi nessuna sanzione se non faceva ricerca (che dovrebbe assorbire il restante 80% del proprio tempo lavorativo). Da poco, ed ancora comunque non è attuata, è stata varata una riforma tendente ad un minimo di merito nell’attribuzione degli aumenti di stipendio dei professori universitari. Prima gli aumenti erano legati solo all’anzianità con scatti automatici biennali. Da quando entrerà in vigore la nuova norma saranno triennali e richiederanno una valutazione dell’attività di ricerca svolta. Fino a ieri un professore faceva carriera e poteva diventare un ordinario anche solo costruendo “carta” locale (e bluffare non era così difficile). Tra l’altro le commissioni di esame sono state per molti anni locali e quasi sempre “addomesticate”. Ciò ha portato a creare un ceto di professori universitari non sempre all’altezza del ruolo ricoperto, anzi. Con l’arrivo di internet e della trasparenza nei curricula scientifici, penso ad esempio a Scopus, che è considerato tra le più autorevoli banche dati di articoli scientifici validati col peer review mondiale, l’autoreferenzialità di tutti quei professori, che fuori dal proprio ateneo non hanno alcun peso scientifico, è esplosa in tutta la sua gravità. Ed è venuto fuori che soprattutto quelli non giovani, quelli che non hanno mai fatto periodi significativi di ricerca all’estero e quelli delle aree con meno proiezioni internazionali (ad esempio l’umanistica o la giuridica), sono spesso decontestualizzati dal network della ricerca mondiale e contano meno di niente. I più intraprendenti di questi hanno cercato di assoldare dei giovani assegnisti, affinché possano produrre per loro pubblicazioni di livello internazionale che possano essere accreditate nelle banche dati serie, come Scopus, e quindi rientrare nel giro dei professori credibili. Altri, invece, e non sono pochi, si hanno pensato di godersi la rendita di posizione aspettando con serenità la pensione (che fino a poco tempo fa per loro arrivava a 75 anni). Tra l’altro, dovendo fare poco o niente, era un traguardo auspicato da ogni professore, che così conservava lo status sociale e in più raggranellava un paio di scatti biennali automatici di aumento di stipendio. Inoltre, col “fuori ruolo” negli ultimi 3 anni non doveva proprio fare davvero niente, neanche un’ora di lezione. Un altro criterio di rating tra i professori universitari è il citation index, il più noto è l’ISI, che misura quante volte una pubblicazione scientifica viene menzionata in altri importanti articoli, dimostrando così l’originalità e la pregnanza scientifica del menzionato. Quindi, in ultima analisi, oggi se si vuole valutare l’autorevolezza di un professore, si contano quante pubblicazioni ha su Scopus e quante volte le sue pubblicazioni sono state citate da altri autorevoli professori su ISI.
Un mondo accademico a sé è quello medico, nel quale vige la prassi che per ogni pubblicazione scientifica vengono elencati tra gli autori, dopo l’effettivo estensore, anche tutte le persone a cui lo stesso è gerarchicamente sottoposto (con la scusa dell’equipe medica). Per cui il barone universitario finisce per aver “scritto” migliaia di pubblicazioni scientifiche. In questi casi, se si vuol fare una valutazione obiettiva, vengono presi in considerazione solo il primo nome o i primi due autori.
Da qualche tempo per far parte delle commissioni di abilitazione nazionale, quindi far parte di coloro che selezionano i nuovi professori universitari, occorre aver un numero di pubblicazioni scientifiche o di citazioni superiore alla mediana del proprio settore scientifico. E così molti baroni universitari dall’oggi al domani si sono trovati impossibilitati a far parte delle commissioni di valutazione, perdendo prestigio ed influenza che sono le prime caratteristiche del baronaggio e, quindi, iniziando il proprio declino universitario.
La domanda che mi pongo è: possono essere queste ultime le persone giuste per formare le nuove generazioni universitarie?
Baronaggio universitario e mediocrazia
Giuseppe Ursino
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CEO del JO Group, cluster di aziende nato nel 1998 con core business in digital transformation e consulenza su fondi europei
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