Fin quando in Italia persiste la mitologia dello Stato con una diffidenza mista a ribrezzo per tutto ciò che è privato, rimarremo un Paese col freno a mano tirato. Questo statalismo è un problema chiaro agli organismi internazionali che periodicamente bacchettano l’Italia per la sua arretratezza. C’è anche una fake news propagandata che promuove falsamente l’idea che il nostro declino sia figlio del neoliberismo (l’Italia non è mai stato un paese liberale). È una stupidaggine sponsorizzata da quel blocco sociale incardinato su partiti, corporazioni e sindacati che ha finora fermato ogni tentativo di riforma del Paese, schiacciando gli italiani in un conformismo anestetizzante. Un giorno riusciremo a superare il tabù di mantenere in capo allo Stato la gestione di tutti i servizi pubblici separando il concetto di pubblico (inteso come funzione di un interesse collettivo) dal concetto di statale (inteso come appartenenza organica all’istituzione pubblica). E magari si arriverà ad accettare l’idea che le regole di funzionamento dei servizi pubblici non dovranno più essere scritte per chi ci lavora, ma per gli utenti.
Mentre polemizzo sulle istituzioni italiane, da catanese non posso tralasciare di stigmatizzare quel rumore di fondo verso il Sud. Dopo l’annientamento sociale ed economico nei primi decenni post Unità, è rimasta implicita l’idea del Meridione come appendice, colonia, insomma una continua umiliazione. È irritante leggere sui libri di scuola la narrazione scritta a misura dei vincitori e contro i vinti, che vengono visti sempre un passo indietro rispetto al Nord, sottintendendo una presunta arretratezza antropologica. Le classi dirigenti dell’Italia sono rimaste convinte dell’ineluttabilità del ritardo del Mezzogiorno e così la questione meridionale è rimasta sospesa tra l’egoismo dei vincitori e la sciatteria dei vinti.
Secondo me uno dei più gravi errori della democrazia rappresentativa è stato dilatare lo spazio dei diritti rinunciando a coltivare i doveri. E la libertà senza doveri porta al degrado sociale. Ho sempre considerato quest’asimmetria un problema e il mio impegno in politica è sempre andato in questa direzione. Per me fare politica non ha mai significato cercare una candidatura a qualche incarico, ma provare a creare consenso a supporto di una prospettiva, di un pensiero, di un progetto utile a tutti e condivisibile dalle élite produttive e sociali. Mi sembra l’unico modo di cambiare davvero le cose, perché in un sistema interconnesso, in cui i centri decisionali sono pronti a farsi l’un l’altro zavorra, o si cambia insieme per una riflessione condivisa o non si cambia. Per questa ragione per me i migliori politici sono i moderati (e non ho cambiato idea da quando a 17 anni ho cominciato ad appassionarmi di filosofia e di politica). Nella mia interpretazione la parola moderazione non definisce il merito di un’offerta politica, ma la modalità di approccio alla realtà, il metodo del beneficio del dubbio, il senso del limite, affinché si giudichi fattibile solo ciò che si riconosce come giusto e non si consideri fattibile, quando ingiusto, tutto ciò che risulta possibile. Ecco perché provo disagio nell’ascoltare certi politici di oggi. Nessuna forza spirituale, vedo solo rinuncia al principio di realtà, superficialità ed arroganza.
Vivendo in una città difficile come Catania, ho chiara l’idea di come la criminalità si possa sconfiggere solo riconvertendo socialmente l’economia che le ruota attorno, ma non vedo nessun progetto politico ed economico che vada in questa direzione!
Ho scritto più volte sulle élite perché c’è un forte bisogno in Italia di un ceto emergente che guidi il Paese fuori dalle secche. Dico, però, che l’unica ragione legittimante una élite è la meritocrazia (e non la famiglia di appartenenza o la lobby a cui si è assoldati). Essendo comunque un valore contrastatissimo in Italia, non esistono da noi élite riconosciute come tali e così finiamo tutti per subire la dittatura dell’ignoranza, di avventurieri abili a manipolare masse ignoranti!