Le 20 aziende più importanti che abbiamo in Europa sono LVMH (Louis Vuitton) e Hermès nel settore lusso, ASML nei semiconduttori, SAP nel settore software, L’Oréal nei prodotti cosmetici, Inditex (Zara) nel settore moda, Nestlé nell’alimentare, Roche insieme a Novo Nordisk, Sanofi, GlaxoSmithKline e AstraZeneca nel farmaceutico, Siemens nell’automazione industriale, TotalEnergies insieme a Schneider Electric e British Petroleum nel settore energetico, Deutsche Telekom nelle telecomunicazioni, Airbus nell’aerospaziale, Unilever nei beni di consumo e Allianz nell’assicurativo.
Di queste neanche una è italiana! Non sarebbe il caso di farsi qualche domanda su un dato così cruciale per la nostra economia?
Intanto un primo dato è che l’Italia, seppure abbia una forte tradizione manifatturiera, ha investito poco in tecnologia e farmaceutica rispetto a Paesi come Germania, Francia e Svizzera. Inoltre, c’è ancora tra gli italiani una certa avversione per il settore privato, che si avverte anche nelle norme giuridiche, nei CCNL e nelle sentenze dei tribunali che favoriscono il settore pubblico e penalizzano la crescita delle aziende.
Grazie all’attività di sindacati e politici a loro collegati il Paese è affossato da norme di ogni genere e burocrazia asfissiante che hanno finora bloccato l’aumento della produttività che è stagnante sin dagli anni ‘90.
Se faccio un breve elenco delle poche aziende italiane di rilievo internazionale, posso citare Enel e ENI (società a partecipazione statale) nel settore energetico, Intesa Sanpaolo nel settore bancario, Ferrari nelle auto sportive di lusso, Assicurazioni Generali nel campo assicurativo, Stellantis nel settore auto e Luxottica nell’occhialeria.
Mi sembra un elenco striminzito per una delle più rilevanti economie d’Europa per PIL e presenza nel settore manifatturiero. E, se sottraiamo le 2 parapubbliche e le 2 del campo finanziario, si riducono solo a 3! I numeri sono così poveri perché nel mio Paese si sono assediate le aziende che crescono con attacchi di ogni tipo, mentre bisognerebbe avvantaggiarle incentivando fortemente fusioni e acquisizioni per creare gruppi più grandi e competitivi.
L’apparato statale, una volta acquisita affidabilità ed efficacia, cosa che al momento non c’è, dovrebbe supportare le aziende italiane nella internazionalizzazione dei mercati di sbocco, creando incentivi fiscali e finanziamenti agevolati per l’espansione in nuovi mercati.
Da quanto scritto prima, l’Italia ha poche aziende nel settore tech, che oggi sono le più strategiche, e quindi il Paese dovrebbe supportare fortemente gli investimenti in intelligenza artificiale, semiconduttori, biotech ed energie rinnovabili.
Andrebbero creati poli tecnologici veramente efficaci, come accade in Germania con la Fraunhofer-Gesellschaft o in Francia con Station F, e spingere molto di più di adesso sulle sinergie tra università e imprese per favorire la nascita di hub innovativi.
Va potenziato il piccolo mercato dei capitali italiani incentivando le quotazioni in borsa con incentivi fiscali e con molta meno burocrazia per spingere più aziende a quotarsi.
Altro tallone di Achille è il cuneo fiscale, perché la pressione fiscale sulle imprese in Italia è troppo alta e ne riduce la capacità di reinvestire in crescita e innovazione.
Una buona volta va affrontato lo scontro col vero potere forte del Paese che è la burocrazia. Va snellita perché le sue lungaggini amministrative in questi anni hanno mortificato la crescita.
Servono procedure più rapide e semplici per autorizzazioni, investimenti e nuove imprese. Come in Germania e Svizzera bisogna dar forti incentivi per ricerca e sviluppo e per i brevetti. Investire in R&D è fondamentale per creare aziende ad alto valore aggiunto.
Insomma, in conclusione, bisogna far nascere e far crescere dei campioni nazionali e poi supportarli a scalare globalmente, tutto il contrario di quanto si è pensato e fatto in questi decenni per ideologie novecentesche dure a morire.