Pensando alla bella cena di due giorni fa per gli auguri natalizi dell’aggregazione “Il Tavolo per le Imprese” con gente sana, piacevole e desiderosa di giustizia, mi è tornato in mente un ricordo di quando sono stato carabiniere ausiliario in un paese della Sicilia.
Ero in volante di pattuglia con un pallone gonfiato che amava dare spettacolo della sua autorità. In quei giorni era appena uscita la nuova legge sull’obbligo del casco in moto e lui aveva deciso di far un posto di blocco in piazza centrale davanti a tutto il paese. I primi due che erano passati, ovviamente senza casco, li avevamo fermati e portati in caserma. Io avevo aspettato in volante per custodire l’M12 sotto il sedile e lui uno per volta li aveva guidati nella stanza del vicebrigadiere. Dopo un po’ avevo visto uscire dal portone con l’aria sconsolata il primo ragazzo ancora con la tuta da meccanico dell’officina dove lavorava. Gli era stata sequestrata la moto. Nel contempo si era avvicinato alla mia volante un carabiniere scelto del nucleo operativo che, sfottente, mi avvertiva che l’altro ragazzo era il fratello minorenne del boss mafioso del paese e che per “sistemarla” avevano chiamato un altro dei fratelli, maggiorenne, per indicare lui nel verbale della multa e in quanto maggiorenne riuscire ad evitare il sequestro del vespone. Ero diventato gelido per la disparità di trattamento e chiesi a questo collega di rimanere al posto mio a sorvegliare la volante. Entrato nella stanza del vicebrigadiere, dove c’erano i due fratelli mafiosi, alzavo la voce: <<Poca fa ho visto uscire l’altro ragazzo a piedi e senza più la sua moto. Quello che state facendo con quest’altro è una porcheria. Io faccio il carabiniere per un solo anno e lo voglio fare bene. Voi che lo fate per carriera tutta la vita e con che dignità lo volete fare? Tutto il paese vi riderà dietro. Quando io sono coinvolto nelle attività non vi permettete più queste cose!>> e mentre sorpresi si guardavano negli occhi me ne ero tornato alla volante. Dopo 10 minuti erano usciti i due fratelli e il più grande mi si avvicinò, mi guardò con rispetto e mi strinse la mano. Secondo me aveva capito chi in quel momento aveva portato i pantaloni là dentro (dopo qualche anno quando iniziò la guerra di mafia lo avrebbero trovato bruciato nel portabagagli di un’auto). L’indomani il brigadiere mi aveva cambiato di mansioni e mi aveva seppellito in archivio a sistemare le carpette di tutti i cittadini del paese che avevano avuto problemi con la giustizia (non c’era internet a quel tempo). Era una stanza coi muri pieni di scaffali colmi. Dopo una settimana, alienato, avevo fatto la mia mossa spostando random tutte le carte della stanza, rendendo inservibile l’archivio. Dopodiché me ne ero tornato a Catania perché avevo 36 ore libere. Al mio rientro in caserma a mezzanotte dell’indomani, mentre ero già a letto nella mia stanza, il brigadiere entrò d’impeto dalla porta con gli occhi rossi inferociti, mi diede del “bastardo” e mi comunicò che l’indomani dovevo presentarmi ad un’altra stazione dei carabinieri di un altro paesello perché mi aveva fatto trasferire. La mia “guerra” era appena iniziata e già il mio interlocutore aveva mollato la presa, meglio così.
Ecco, ho sempre amato le cose giuste e non mi sono mai piaciuti quelli che fanno i forti coi deboli e gli agnellini coi forti. E non sono cambiato.
Ho sempre amato le cose giuste e non mi sono mai piaciuti quelli che fanno i forti coi deboli e gli agnellini coi forti
Giuseppe Ursino
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CEO del JO Group, cluster di aziende nato nel 1998 con core business in digital transformation e consulenza su fondi europei
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